La poesia di Betocchi e le
piante (o... animali)
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Alba ed aranci
Spicca l'arancia all'alba
e bevi il succo:
io guardo il cielo,
dove la ramaglia
si slancia, a frusto a
frusto.
E avremo un'altra
infanzia
che si smaglia
da quell'azzurro,
lenta;
precipita l'arancia
dal sole alle tue mani,
e dai lontani
giardini, ove un
inverno
caldo sorveglia i mari.
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Dell'acqua d'aprile
Col tuo peso fluente
piovi pioggia d'aprile,
del candor d'occidente
pieno il ventre
gentile:
e sorgi dalle schiume
marine, e pieni il
fiume.
Pur sai le stormenti
isole
che sepolte nel mare
agitan le sonnifere
ombre di palme rare:
e l'onda vagolante
sotto il ciel
delirante.
Ma nulla vedi, e solo
dici: - tornero' presso
il bosco dell'assiolo,
il campo del cipresso;
e sui campi gia' arati
umidamente fiati.
Or ti vedo sull'umida
terra con nube tarda
baloccarti alla tumida
gemma gonfia e
gagliarda:
or ti vedo alle prata
belverde intemerata.
Niuno ti dice cessa;
dai conventi alle
ville,
monacata o contessa
ti travagli per mille;
e speranza hai nel
grembo
del femmineo tuo nembo.
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D'estate
- E cresce, anche per noi
l'estate
vanitosa, coi nostri
verdissimi peccati;
ecco l'ospite secco
del vento,
che fa battibecco
tra le foglie della magnolia;
e suona la sua
serena
melodia, sulla prua
d'ogni foglia, e va via
e la foglia non stacca,
e lascia
l'albero verde, ma
spacca
il cuore dell'aria.
Dicembre
- Dicembre si conosce al freddo
vento
che muove l'aere sopra
i morti piani,
sente la vigna il rezzo
dello stento
piangon nel ghiaccio
rivo acqua gli ontani.
Stanno le ville senza
sentimento
morte guardando, che'
son giorni vani,
mentre gli aguzzi cipressi lontani
rigan le piogge col
negro lamento.
Chi va per via non ha
altro talento
che di rimpianger bei
fuochi nostrani;
e i mali gli si fan
dell'uno cento.
Guarda gli uccelli aver
goffi pastrani
chiotti sul ramo con il
volo spento,
e ascolta il lungo
guaiolar dei cani.
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Di maggio
Disarmato, l'animo disarmato,
vidi un giorno di
Maggio
in padule, il lungo
canale
d'acqua ferma, iridata
dall'ozio,
costellata dai bianchi
fiori delle ninfee.
Era stato acquazzone, e
ancora il tuono
rotolava laggiu' verso
Fucecchio:
sull'argine scivoloso
chiare pozze tra l'erbe.
Disarmato, l'animo
disarmato,
come quell'acqua ferma
sostenevo
il chiarore del cielo e
le sue minacce:
mi costellavo di
piccoli fiori inermi,
calmo conducevo il mio
esistere.
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Di marzo
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Un po' piu' di pazienza
pel vento di marzo, allo spazio che vuole la nuvola, al lampo d'un occhio di sole!
Un po' piu' di stoltizia per la dovizia che
bagna la piana e allontana la folle montagna sul mare... E paura,
un po' piu' di paura per l'azzurro che
scaltra innalza la primavera.
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Di uno stagno campestre
Della mia anima al fondo e al fondo d'una
vallata d'autunno giace uno stagno
profondo, la memoria di cio' che
fummo.
Dormon nel seno di
quello con le lor parvenze
immemorabili ombre che un magico
appello solleva da letti
inscrutabili.
Ma che son, parvenze e
tempo, sotto i rami che
s'allaccian dei pioppi? sotto il mulino dal
tetto antico, e i
rosseggianti coppi?
Sotto le tenere erbe che s'avviluppano lungo
la sponda, la cui radice si perde nella terra bruna e
nell'onda?
Il sole e la luna e
l'ombre abitan perennemente
quell'acque dove trasalgon le
fronde al vento che non si
tace;
e in trasparenti
riflessi ondeggiando, e in
abissali connubi scendono, in seno agli
spessi sogni, l'ombre d'oggi e
le nubi.
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Io, la formica
Io sono la formicola che pare morir la sera al nascer
della luna quando co' suoi deserti
m'affattura pallidamente l'unica
natura
dell'anima e dei
complici orizzonti. Fra i limitati triboli
del giorno, nel cerchio inane dei
segreti monti, quando vo' per pianure
aride intorno
al nido travagliandomi
col seme pesante della mia arida
speme, voi lo sapete, con cui
vivo insieme, il negro corpo che vi
porta il pane.
Ma il giorno ha la
pazienza del domane: ha la cristianita'
d'antica gente che m'ha fatto formica
tra le lente ed ignote formiche
della fame.
La notte ha il resto;
si commuove al seme lunare il mondo, e
l'ombra del mio piede minuscolo col mio corpo
si vede mutarsi nell'eterna
chiarita'.
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Rosa
Io sono la rosa; incanto l'aria, tremo sulle
spine; selvaggia mi tiene il
pianto d'inverno tra acute
brine. La man, che in Dicembre
mi coglie la cruda mia vita
discioglie.
Io, prigioniera del
gelo, qui giaccio sul tetro
banco, purpurea confitta allo
stelo che si ripiega gia'
stanco: deh! mani, scegliete
pietose me sola, tra le mille
rose!
Che mi ricordo del
maggio, soavemente reclinando; in sua dolcezza
selvaggio, io ne vado delirando: deh! gia' ch'io non
posso piu' vivere lasciatemi alfin
morire!
Avrei, in una calda
sala aperto splendente il
fiore e sull'impalpabil ala volerebbe il forte
odore: avrebbero l'ombre
spavento del mio solitario
portento.
Ma anzi... domani la
rosa, vedrete, sara' gia'
nulla; va, come una morta cosa sull'onda fetida e
brulla; del maggio, ch'essa ha
amato tanto, attende - ma non ode -
il canto.
("La rosa venduta d'inverno")
Salice
Vedo dei salci rossi nelle campagne brulle; ci son rosse fanciulle a lavare nei fossi.
Come han bella la
chioma nell'aria che la brama! chi la vagheggia ed ama ogni vezzo le dona.
Teneri salci, aprile giunge, sarete verdi; fanciulla, e tu non
perdi il tuo riso puerile?
Noi staremo cercando ancor quelle chiome
agre: voi andrete leggiadre per i campi cantando.
("Salici fanciulle")
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